DOPO LA COLOMBIA LE IMPRESE ITALIANE PUNTANO AL CILE

Dopo la Colombia, le imprese italiane fanno tappa in Cile. È cominciata a Santiago la seconda tappa della missione promossa dai ministeri dello Sviluppo economico e degli Affari esteri e organizzata da Confindustria, Ice, Abi, Rete imprese Italia, Alleanza delle cooperative e Unioncamere. L’’obiettivo è sondare e rafforzare anche in questo Paese le opportunità di business in svariati settori, dall’agroindustria al biomedicale.

Si tratta della seconda volta che le imprese italiane arrivano in Cile (la prima era stata nel 2009) la missione è focalizzata sui settori che offrono le maggiori prospettive di collaborazione tra i due Paesi: meccanica e agroindustria, green technologies, biomedicale e infrastrutture (incluso Ict).

Che il contesto cileno sia più che favorevole lo dimostrano i seguenti dati: tassi di crescita elevati negli ultimi anni (Pil 2014 +1,9%, stima 2015 +2,9%), ricchezza di risorse minerarie (il 35% del rame prodotto nel mondo proviene dal Cile), rendite costanti negli anni.

I ministri e i presidenti italiani delle principali organizzazioni dello sviluppo economico e dell’internazionalizzazione lavorano su un accordo di doppia imposizione tra Italia e Cile, l’intesa dovrebbe basarsi su un principio di riconoscimento dei due sistemi fiscali per rafforzare la presenza italiana in Cile, ancora insufficiente sia in termini di commercio sia di investimenti. L’interscambio tra i due Paesi è oggi pari a circa 2 miliardi di euro nel 2014: importante ma limitato. L’obiettivo è spostare l’attenzione delle imprese dal Mercosur, i Paesi del mercato comune dell’America del Sud, ai Paesi dell’Alleanza del Pacifico, con al centro il Cile, che dal 2012 garantisce la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone.

Le imprese italiane sono tornate in Cile a distanza di 5 anni dalla prima missione di sistema, perchè il paese offre un potenziale ancora inespresso nelle relazioni economiche, è l’intenzione è di sfruttarlo appieno. La speranza di Confindustria è che anche il Cile, come la Colombia, possa diventare un hub produttivo e logistico, un ponte non solo per tutto il Sud America ma anche per l’Asia.

Inoltre è da ricordare l’apertura del Cile al commercio internazionale: il paese ha firmato accordi preferenziali con ben 61 Paesi, realtà che insieme determinano circa l’ 85% del Pil mondiale. Uno di questi, entrato in vigore nel 2003 con l’Ue, permette alla quasi totalità dei prodotti italiani di essere importati in Cile in assenza di dazio e ciò rappresenta un vantaggio competitivo per l’Italia grazie al quale il valore del nostro export in 10 anni si è più che triplicato.

SINGAPORE PUNTA SULL’ITALIA

Thomas Chua Kee Seng è il presidente della Singapore Chinese Chamber of ma anche managing director di Teckwah, azienda del packaging nata a Singapore, negli anni’60, che oggi si occupa anche di business online e logistica a fine giugno insieme ad una decina di colleghi sarà in Italia.

La visita sarà su iniziativa dell’Italian Chamber of Commerce di Singapore (Iccs), con l’obbiettivo di  creare “ponti” con aziende italiane (dal vino ai latticini, dagli alcolici alle carni), toccare con mano le realtà produttive e valutare sinergie.

Intanto l’Asean cresce del 6% l’anno ed entro il 2015 entrerà in vigore l’Asean Economic Community, un’area di libero scambio a dazio zero da 600 milioni di consumatori.  Il presidente di Iccs, Federico Donato afferma l’intenzione di favorire gli investimenti in Italia e supportare Singapore come hub strategico per il sudest asiatico.

Singapore è strategico per conquistare una clientela raffinata e la top class cinese,  potrebbe rappresentare una sede per l’Asean.  Infatti dei 320 milioni di euro di fatturato 2014, il 42% viene dall’export. Il 10% dall’Asean. E nei prossimi anni crescerà ancora. In più, dal 1° aprile, il ministero dell’Economia ha escluso Singapore dalla blacklist su indeducibilità dei costi e Cfc.

E’ necessario essere aggressivi nel marketing per esportare, promuovere, investire, con una visione di lungo periodo.

L’ACCORDO SUL NUCLERARE IRANIANO E L’IMPATTO ECONOMICO.

L’Iran e i paesi del gruppo 5+1 hanno finalmente raggiunto un accordo sui punti chiave del negoziato sul programma nucleare della Repubblica Islamica. Un’intesa storica con un impatto geopolitico importantissimo.

 I 18 mesi di negoziati che hanno portato al consolidamento di questo compromesso non sono però ancora finiti. Mentre i leader del mondo si occupano di dati tecnici vale la pena soffermarsi un po’ di più sulle conseguenze economiche di questo accordo, soprattutto per quel che riguarda l’impatto derivante dalla revoca delle sanzioni, che per gli analisti iraniani sono alla base di anni di crescita instabile, elevata inflazione, vincoli bancari forti e difficoltà diffusa di reperire capitali.

La prima cosa che si può dire è che la variabile tempo è cruciale. Il tempo in cui si possono togliere sanzioni non sottoposte all’approvazione del Congresso prima che cambi la presidenza ammonta a meno di due anni. Almeno sei mesi saranno perduti non solo per ostacoli frapposti da chi è ostile all’accordo o per tempi tecnici, ma anche perché prevedibilmente il prezzo del barile Brent si manterrà basso ($50-60) e quindi non potrà aiutare l’economia iraniana a crescere con la rapidità desiderata.

A prescindere dalla difficoltà contingente di elaborare previsioni affidabili, resta un dato di fatto che la fine dell’isolamento iraniano avrà un impatto sugli equilibri economici mondiali. Il primo effetto a breve può essere una stabilizzazione al ribasso dei prezzi energetici per l’aumento d’offerta e forse anche una competizione per quote di mercato tra iraniani ed altri attori. Il secondo una dinamizzazione della finanza islamica perché Teheran si presenta come un competitore interessante. Il terzo una possibilità di crescita delle economie del Golfo e di quelle collegate.

Le opportunità economiche che sulla carta l’Iran è in grado di offrire, quindi, sono notevoli, ecco perché dobbiamo aspettarci una crescita netta degli investimenti nell’area. Anche l’interscambio commerciale con l’Europa, fermo oggi a 7,6 miliardi di euro, potrebbe subire un’improvvisa impennata del 400 per cento. Del resto, per colpa delle sanzioni l’industria iraniana sta lavorando al 60 per cento delle proprie capacità, e con gli investimenti che arriveranno nel paese il suo rilancio è ormai inevitabile.

Per Europa e Stati Uniti sarebbe assolutamente insipiente non investire una volta che si è stati artefici di un accordo così rilevante dal punto di vista politico.

 L’energia è una delle poste in gioco del mercato iraniano ed è anche la migliore garanzia che i debiti e lo spostamento di capitali vengano ripagati. Tuttavia, esistono molti altri settori in cui è opportuno valutare un investimento: turismo, cultura, infrastrutture, edilizia, scienza e tecnologia, agrifood, moda, aerospazio e difesa. Naturalmente senza trascurare tutte le variabili di stabilità politica endogena ed esogena ad essi collegati.

“THE EXTRAORDINARY ITALIAN TASTE” NUOVO LOGO CONTRO LA CONTRAFFAZIONE

Un segno unico distintivo del settore agroalimentare made in Italy. Il segno unico è rappresentato da una bandiera italiana con tre onde che richiamano il concetto di crescita e di sviluppo e dalla scritta «The extraordinary Italian taste”. Il ministero delle politiche agricole ha presentato a Expo, presso il Teatro della Terra nel Padiglione della Biodiversità e del Biologico, il “Segno unico distintivo del settore agroalimentare italiano”, un logo con il quale distinguere subito i prodotti effettivamente made in Italy. Un modo per difendersi dalle contraffazioni dei prodotti italiani che purtroppo proliferano in tutto il mondo.

A battezzare il nuovo simbolo il ministro delle Politiche alimentari e forestali Maurizio Martina che spiega come  l’agroalimentare italiano sarà più forte e più riconoscibile sui mercati internazionali. Finalmente l’Italia avrà un segno distintivo unico che aiuterà consumatori e operatori a identificare subito le attività di promozione dei  prodotti.  Si partirà dall’ Expo Milano 2015 per sfruttare questa straordinaria occasione di visibilità per poi proseguire con le azioni previste dal piano di internazionalizzazione sui mercati strategici.

Il ministro ha anche sottolineato che il 2014 si è chiuso con 34,4 miliardi di euro e nel primo trimestre del 2015 siamo a oltre 8,7 miliardi di euro. L’obiettivo è arrivare a 36 miliardi a fine anno. Anche sfruttando bene l’Esposizione Universale di Milano è possibile raggiungere l’obiettivo e puntare  a una quota 50 miliardi di export nel 2020.

Un logo unico vuole veicolare un’idea unitaria del Made in Italy; si tratta infatti di un marchio che serve alla promozione del Made in Italy agroalimentare, sotto una bandiera unica, e al contrasto dell’Italian sounding. Il logo verrà utilizzato in occasione delle fiere internazionali, in attività di promozione all’interno dei punti vendita della grande distribuzione estera, nelle campagne di comunicazione e promozione in Tv, sui media tradizionali, su Internet e sui social media.

L’obiettivo di un logo unico vuole veicolare un’idea unitaria del Made in Italy dalle caratteristiche originali e dalla qualità distintive. Nelle fiere, ad esempio, servirà a caratterizzare in modo univoco l’area espositiva dedicata all’Italia del cibo e del vino. Il marchio verrà utilizzato all’interno del Padiglione del Vino e del Padiglione del Cibo a Expo, proprio per cogliere l’occasione unica di visibilità offerta dall’evento di Milano. Un’operazione si sistema paese per recuperare terreno rispetto ai concorrenti.

Si tratta in sostanza di un’operazione di sistema paese, che consentirà all’Italia di recuperare terreno rispetto a Paesi concorrenti che già adottano marchi di questo tipo con espositiva dedicata all’Italia del cibo e del vino.

LO ZIMBABWE PASSA AL DOLLARO USA. ADDIO ALLA BANCONOTA DA 100 TRILIONI

Harare cambia sistema valutario. Fissato il tasso di cambio: 5 dollari Usa ogni 175mila quadrilioni di dollari locali. Il paese aveva iniziato a usare divise straniere dal 2008 quando l’iperinflazione, 500 miliardi  per cento quell’anno, ha distrutto il potere d’acquisto della moneta nazionale.

C’è grande confusione sotto il cielo delle certezze valutarie. Ora a muovere è lo Zimbabwe, che dopo anni d’indecisione ha deciso di traghettare definitivamente il paese all’uso del dollaro Usa. Tasso di cambio: 5 dollari usa ogni 175mila quadrilioni dei vecchi Zim-dollars. Harare, a dire il vero, ha già iniziato  da qualche anno a usare nella vita di tutti i giorni quasi solo valute straniere. Nei negozi si può pagare in sterline, rand sudafricani, pule del Botswana, yuan cinesi e persino in Yen. A fianco di queste monete esotiche, però, è rimasto in circolazione fino ad oggi il povero dollaro dello Zimbabwe, ridotto più o meno a carta straccia da lustri di iperinflazione, con tassi di crescita dei prezzi arrivati ai 500 miliardi per cento del 2008.  Le banconote stampate prima del 2009 saranno cambiate al tasso di uno a 250 trilioni. Numeri più da Paperopoli che da credito moderno. L’istituto creditizio nazionale ha stanziato per l’intera operazione la bellezza di 20 milioni di dollari Usa. Uscirà quindi di circolazione la banconota blu da 100 trilioni di dollari stampata nel 2008, ormai un cult, che ai cambi attuali vale appena qualche centesimo.

One among many – China has become big in Africa. Now for the backlash

China has become by far Africa’s biggest trading partner, exchanging about $160 billion-worth of goods a year; more than 1m Chinese, most of them labourers and traders, have moved to the continent in the past decade. The mutual adoration between governments continues, with ever more African roads and mines built by Chinese firms. But the talk of Africa becoming Chinese—or “China’s second continent”, as the title of one American book puts it—is overdone.

A decade ago Africa seemed an uncontested space and a training ground for foreign investment as China’s economy took off. But these days China’s ambitions are bigger than winning business, or seeking access to commodities, on the world’s poorest continent. The days when Chinese leaders make long state visits to countries like Tanzania are numbered. Instead, China’s president, Xi Jinping, has promised to invest $250 billion in Latin America over the coming decade.

The growth in Chinese demand for commodities is slowing and prices of many raw materials are falling. That said, China’s hunger for agricultural goods, and perhaps for farm land, may grow as China’s population expands and the middle class becomes richer.

Yet Africans are increasingly suspicious of Chinese firms, worrying about unfair deals and environmental damage. Opposition is fuelled by Africa’s thriving civil society, which demands more transparency and an accounting for human rights. This can be an unfamiliar challenge for authoritarian China, whose foreign policy is heavily based on state-to-state relations, with little appreciation of the gulf between African rulers and their people. In Senegal residents’ organisations last year blocked a deal that would have handed a prime section of property in the centre of the capital, Dakar, to Chinese developers. In Tanzania labour unions criticised the government for letting in Chinese petty traders.

Some African officials are voicing criticism of China. Lamido Sanusi, Nigeria’s former central bank governor, says Africa is opening itself up to a “new form of imperialism”, in which China takes African primary goods and sells it manufactured ones, without transferring skills.

After years of bland talk about “win-win” partnerships, China seems belatedly aware of the problem. On a tour of the continent, the Chinese foreign minister, Wang Yi, said on January 12th that “we absolutely will not take the old path of Western colonists”. Last May the prime minister, Li Keqiang, acknowledged “growing pains” in the relationship.

China has few political ambitions in Africa. It co-operates with democracies as much as with authoritarian regimes. Its aid budget is puny. The few peacekeepers it sends stay out of harm’s way. China’s corporatist development model has attracted few followers beyond Ethiopia and Rwanda. Most fast-growing African nations hew closer to Western free-market ideas. In South Sudan, the one place where China has tried to flex its diplomatic muscle, it has achieved embarrassingly little. Attempts to stop a civil war that is endangering its oil supply failed miserably.

Chinese immigrants in Africa chuckle at the idea that they could lord it over the locals. Most congregate in second-tier countries like Zambia; they are less of a presence in hyper-competitive Nigeria. Unlike other expatriates, they often live in segregated camps. Some thought, after a decade of high-octane engagement, that China would dominate Africa. Instead it is likely to be just one more foreign investor jostling for advantage.

G7, I GRANDI CHIEDONO DI ACCELERARE SUL COMMERCIO INTERNAZIONALE

Accelerare i colloqui tra Ue e Stati Uniti, avviando i negoziati sui punti fondamentali, per concludere entro l’anno il Trattato di libero scambio Ttip. E’ l’impegno del summit del G7 che si sta concludendo in Baviera.

“Accelereremo immediatamente tutto il lavoro sui sui temi del Ttip – affermano i leader dei Sette Paesi più industrializzati del mondo – assicurando progressi su tutti gli elementi del negoziato, con l’obiettivo” di arrivare ad un accordo “al più presto possibile, preferibilmente entro la fine dell’anno”.

“Dobbiamo essere consapevoli che ci sono punti difficili da concordare sia per noi che per gli Stati Uniti”, ha però ricordato la padrona di casa Angela Merkel nella conferenza finale.

Il comunicato, precisa che la ripresa economica procede e il calo dei prezzi dell’energia sta avendo effetti positivi su molte delle economie del G7. Ma molte economie operano ancora sotto il loro potenziale e c’è molto lavoro ancora da fare per una crescita sostenibile e bilanciata. I grandi hanno affrontato i temi della congiuntura internazionale “in modo approfondito, confrontandosi anche con nuove sfide come il ruolo dei paesi emergenti”.

Resta l’alert sul lavoro: “I tassi di disoccupazione sono ancora troppo elevati anche se ci sono stati consistenti miglioramenti negli ultimi anni”, si scrive nel comunicato.Altri problemi che il summit ha identificato sono “bassi tassi di inflazione da tempo, domanda debole e bassa attività di investimento, alti livelli di indebitamento pubblico e privato, continui squilibri a livello interno ed esterno, tensioni geopolitiche e volatilità sui mercati finanziari”. Il G7 rinnova l’impegno a risolvere questi punti negativi e a continuare gli sforzi perchè la crescita “sia per tutti”.

Il premier Matteo Renzi ha parlato del ruolo dell’Italia: “L’Italia sta in questo consesso del G7 come un grande paese, che è parte della soluzione della crisi economica, non più parte del problema. Questo non significa che abbiamo fatto tutto, c’è ancora tanto da fare, ma la novità è che non c’è più un problema Italia”, ha spiegato ai giornalisti. “I dati sull’economia italiana sono positivi, ma per noi ancora timidi”.